di Alberto Baldazzi – L’impatto dell’inverno demografico e dell’invecchiamento della popolazione, oltre che sull’area della previdenza e dei servizi primari è particolarmente drammatico per l’area della sanità. Lo studio che segue analizza lo stato dell’arte, le prospettive a medio/lungo termine e il quadro degli interventi da porre in essere per mitigarne gli effetti, compreso quello – complesso ma essenziale – del contributo dell’’immigrazione.

    Premessa: il valore dei “numeri”
    Viviamo sempre più in un mondo popolato da “numeri”. Nella comunicazione e nel pubblico dibattito regnano quelli dello spread, degli andamenti del Pil, i dati del debito, i + e i – che caratterizzano l’andamento dei diversi comparti produttivi, le percentuali degli immancabili, quotidiani, sondaggi politici. In alcuni casi si tratta di “numeri” che hanno una loro oggettività; spesso, però, siamo di fronte a “proiezioni” che non sempre si rivelano esatte. Quando poi i “numeri” entrano nel tritacarne del dibattito e delle contrapposizioni politiche, insieme alle parole e agli slogan che li accompagnano sembrano transitare dal piano della realtà a quello di una libera (e spesso strampalata) interpretazione. In questi casi siamo di fronte a una sorta di moderna cabbala, per la quale il Dizionario Treccani riporta tra i significati più diffusi “trovata subdola che ha lo scopo di raggirare qualcuno” e “arte che presume d’indovinare il futuro per mezzo di numeri, lettere, sogni”.
    Nel caso dei dati 2023 sulla natalità in Italia pubblicati recentemente dall’Istat, siamo invece di fronte a “numeri” inequivocabili e ad una piena oggettività che conferma e aggrava la percezione di quell’“inverno demografico” che sempre più presenta la temperatura di una vera e propria glaciazione: non un sogno, dunque, ma un incubo. Lo scorso anno in Italia solo 379.890 nuovi nati, il -3,4% rispetto al 2022, in valore assoluto 13.000 in meno: un trend regressivo e consolidato che segnala come in 10 anni, dal 2013, le nuove culle siano diminuite di ben il 28%, con impatti drammatici sulle prospettive demografiche del Paese. Ma nel report dell’Istat il dato assoluto, già di per sé deprimente, è corredato da molti altri elementi che ancor di più le rendono problematiche. Vediamone alcuni.

    Natalità 2024 in Italia: i dati
    Il numero medio per figli delle donne che vivono in Italia è sceso dall’1,24 del 2022 all’1,20 del 2023.
    Se si considerano solo le donne italiane, questo dato scende ad 1,14 per risalire leggermente (+0,6) grazie al contributo delle donne di origine straniera (1,79). Lo scorso anno i nati da genitori italiani sono stati 298.948, circa 12.000 in meno rispetto al 2022 (-3,9%), I nati da coppie in cui almeno uno dei genitori è straniero sono stati 80.942; anche questo dato è in calo dell’1,5% rispetto al 2022. La percentuale dei nuovi nati con almeno uno dei genitori di origine straniera nel 2023 è stata superiore al 21%; quelli con entrambi i genitori stranieri sono stati 50.000, il 13,3% del totale (3.000 in meno rispetto al 2022). E’ importante segnalare che il mantenimento di una popolazione stabile richiede un tasso di riproduzione pari a 2,1. Con un tasso poco superiore a 1 (e in progressiva discesa) le proiezioni demografiche segnalano nel giro di poche generazioni un tendenziale dimezzamento della popolazione. Questo trend è assai consolidato: se andiamo ancora più indietro nei decenni, il delta tra i nuovi nati 2023 e quelli dell’epoca dei boomers è abissale. Nel 1964 i nuovi nati furono 1.035.207, quasi il triplo degli attuali, ed il tasso di fecondità era pari a 2,7.
    Le nuove generazioni, dunque, sono destinate a rappresentare una minoranza nella complessiva popolazione che invecchia sempre di più, grazie all’aumento dell’aspettativa di vita. Anche le neo mamme “invecchiano”: l’età media delle donne al primo figlio è di 31,7 anni.
    Oltre ad analizzare i dati nazionali, l’Istat scende nel dettaglio e fornisce una gran messe di indicazioni di livello territoriale assai interessanti per segnalare i trend locali che confluiscono nel quadro generale. In questa classifica (contrassegnata sempre dal segno -), l’area del Paese dove il tasso di natalità risulta più alto è il Trentino-Alto Adige, dove è pari a 1,42 (comunque in discesa rispetto all’1,51 del 2022). Trattandosi di una regione a reddito medio-alto si potrebbe ritenere che questo dato sia da collegare ad una condizione socio-economica più elevata, ma questa interpretazione è smentita dai numeri della Sicilia e della Campania, regioni con un tessuto economico più debole, che si piazzano rispettivamente al secondo e al terzo posto nella classifica della natalità (rispettivamente 1,32 e 1,29, entrambi i dati comunque in discesa rispetto al 2022).
    L’area geografica nella quale il dato si conferma più basso è la Sardegna, con un tasso di fecondità pari a 0,91 (in ulteriore discesa rispetto allo 0,95 del 2022). L’isola conferma così la non invidiabile palma del minor tasso di fecondità al mondo e il record italiano delle neo mamme più “anziane”: in media 33,2 anni al momento del parto. Nella provincia di Cagliari il tasso scende addirittura a 0,86.

    A parziale spiegazione dei questi trend, va segnalato che la Sardegna è l’area del Paese che presenta la quota più bassa di presenza di immigrati: il 3,4%, contro percentuali intorno al 20% in diverse regioni del nord. Passando ad un’altra regione, il combinato-disposto della bassa natalità e dell’aumento dell’attesa di vita produce in Liguria un altro record negativo: l’età media della popolazione superiore ai 52 anni: la più alta dell’intera Europa.
    L’impatto di questi trend sulle prospettive demografiche del Paese risulta devastante. Se già negli ultimi anni, e malgrado il contributo dell’immigrazione, la popolazione residente ha mostrato una leggera decrescita, per i prossimi decenni l’Istat prospetta un vero e proprio spopolamento: da circa 59 milioni al 1° gennaio 2023 a 58,6 milioni nel 2030, a 54,8 nel 2050 fino a 46,1 milioni nel 2080.

    Prospettive e confronti
    La denatalità e la prospettiva di forte riduzione della popolazione e del suo invecchiamento sono fenomeni che investono molti (ma non tutti) i paesi del nord del mondo. Non a caso la Presidente della Commissione Europea Von der Leyen ha recentemente dichiarato la volontà di metter al centro del suo secondo mandato il tema dell’inverno demografico. Il fenomeno, comunque, non è omogeneo. Guardando ai paesi europei, Eurostat segnala che, se è vero che il trend alla diminuzione della nascite si conferma e si approfondisce (dai 10,6 nati ogni 1.000 abitanti nel 2008 si passa agli 8,7 nel 2022), i diversi paesi del Continente mostrano dati tra loro assai distanti. In Italia, ad esempio, nel 2023 sono nati solo 6,4 bambini ogni 1.000 residenti. Per ciò che riguarda il tasso di natalità la Francia presenta il dato (2022) più alto, l’1,79, seguita dalla Romania (1,71), dalla Bulgaria (1,65) e dalla Repubblica Ceca (1,64). Fanno peggio dell’Italia (1,20) solo Malta (1,08) e la Spagna (1,16). L’inverno demografico è dunque assai più mite in Francia, dove il tasso di riproduzione è una volta e mezza quello italiano. Ogni singola area manifesta delle specificità che, pur all’interno dello stesso trend generale, producono numeri” diversi. Nel caso della Francia questo più elevato tasso di natalità è certamente da mettere in relazione con due aspetti: le forti politiche fiscali e l’offerta di servizi a favore delle famiglie per un verso, e per l’altro l’elevata quota di donne di origine extraeuropea che la popolano, frutto della storia post coloniale del paese e dei flussi di nuova immigrazione. Cambiando continente, negli Stati Uniti la popolazione nell’ultimo quarto di secolo è addirittura aumentata di circa 35 milioni (da 295 a 330), a causa di forti flussi di immigrazione e della presenza di quote assai elevate di popolazioni di origine ispanica. Dalla complessiva analisi dei diversi dati nazionali e areali risulta chiaro che la condizione di benessere economico di per sé non comporta una maggiore propensione alla riproduzione; a contare sono anche – e, forse, soprattutto – le dimensioni culturali e le diverse collocazioni delle donne nel complessivo contesto sociale.
    Passando dai confronti alle prospettive demografiche, una cosa è certa: i paesi come l’Italia a bassa natalità e in predicato di perdere un ulteriore terzo dell’attuale popolazione nei prossimi decenni, si trovano sull’orlo di un vero e proprio baratro, in quanto il sistema produttivo e il welfare che attualmente lo caratterizzano, se già oggi mostrano la corda con il passare degli anni non potranno che collassare. Se (dati 2024) la popolazione attiva, ovvero chi lavora e produce, sfiora i 24 milioni, mentre quella in quiescenza per raggiunti limiti di età e che percepisce pensioni assomma a circa 16 milioni di individui, l’attuale rapporto di 3 a 2 tra attivi e inattivi è destinato già nel 2050 a scendere a 1 a 1: un pensionato per ogni attivo. E se a qualcuno il 2050 può apparire una data lontana, vale la pena di segnalare che già del 2022 in 39 province italiane il numero dei pensionati superava quello degli attivi. Come si presenterà lo scenario con una popolazione ridotta nei prossimi decenni di diversi milioni di unità, e con un trend di invecchiamento ulteriormente in crescita? La forte diminuzione della popolazione rappresenta una prospettiva insostenibile che sprofonderebbe il Paese in una crisi socio-economica abissale da cui sarebbe impossibile risalire, minando i pilastri della società cui siamo stati abituati negli scorsi decenni, e che già oggi vacillano.
    Gli effetti di questa defaillance demografica che si è manifestata più nettamente nell’ultimo quindicennio ma che origina negli anni Settanta del secolo scorso, sono stati e vengono continuamente lamentati dal sistema produttivo italiano. Mancano le braccia, ma mancano anche le teste.

    C’è penuria sia di profili di lavoro basici, sia di quelli specializzati, ed il contributo dei figli degli immigrati nelle quantità pur crescenti degli ultimi decenni, è insufficiente e non riesce a compensare i vuoti. Ma questi primi segnali non sono nulla in confronto a quello che potrà – o potrebbe – avvenire nei prossimi decenni.
    Questa fosca previsione è inoltre legata alla considerazione che, se è vero che tutti noi – a prescindere dall’età anagrafica -, siamo cittadini e veniamo “contati” come tali, è evidente che la dimensione produttiva di una società è frutto dell’apporto delle fasce attive. Un’area meno popolata e, per di più, abitata maggioritariamente da una popolazione anziana e a riposo, incarna una proiezione produttiva necessariamente asfittica.

    Oltre all’aspetto della potenzialità produttiva, esiste infatti quello del sentiment, della percezione che una società ha di se stessa, e che emana principalmente dalla generazioni più giovani. Nella storia è sempre stato così. Ora siamo al passaggio dalla società dei baby-boomers a quella dei retired-boomers. Nei prossimi anni, poi, grazie all’aumento dell’attesa di vita saranno sempre più maggioritarie le classi d’età con “un grande futuro dietro le spalle”, e ciò certamente non è un buon viatico per fornire alla società quell’energia indispensabile per conferirle direzionalità e dinamicità.
    Ciò vale per il “caso italiano”, ma per estensione vale, seppure in minore misura, per la maggior parte dei paesi occidentali, nei quali però il quadro, come abbiamo visto, è più movimentato. Non è un caso che questa situazione generi un altro fenomeno pernicioso: quello della “fuga” di giovani italiani da un Paese che per loro non risulta attrattivo, e che non fa nulla per trattenerli. Il Cnel segnala che dal 2011 al 2023 ben 550.000 giovani italiani tra i 18 e i 34 anni hanno cercato fortuna all’estero. Oltre alla perdita “umana”, il Cnel segnala che il valore economico del capitale umano “espatriato” e calcolabile in circa 134 miliardi.
    Rispetto a questi “numeri”, qualcuno potrebbe dire che informatica e robotica sempre più potranno permetterci di ridurre la necessità di fare ricorso al lavoro umano e, quindi, che la diminuzione di braccia e di teste potrebbe non rappresentare un grave problema. Si tratta di una visione erronea e di un ottimismo mal riposto, e ciò per un duplice ordine di motivi.
    In primo luogo va tenuto presente che una società invecchiata assorbe quote di lavoro sempre crescenti per la cura alla persona. Qualche anno fa, nel 2018, l’Eurispes ha segnalato che in Italia l’area propriamente sanitaria e quella dei caregiver assommavano circa 2 milioni di operatori, quasi il 10% dell’intero ammontare degli allora occupati. Questa quota è destinata a crescere proprio per l’invecchiamento della popolazione, e ciò per un verso è un bene, perché significa che la cura alla persona potrà assorbire una parte degli espulsi dagli altri settori. Ma guardando lo scenario da un’altra ottica, questo significa che per l’assistenza alla parte non più attiva della società sarà impegnata una quota di attivi sempre maggiore, il che comporterà una ulteriore riduzione del bacini di lavoro cui attingere per la produzione di beni e di molte tipologie di altri servizi.
    In secondo luogo, la storia anche recente ci insegna che, malgrado l’avanzare della globalizzazione, per le maggiori e più avanzate economie mondiali il peso del mercato interno rimane e diviene sempre più essenziale. Ciò spiega perché i paesi che più crescono nelle graduatorie dello sviluppo, sono quelli con amplissimi bacini sia di produttori, sia di consumatori: si pensi ai Brics. Ma anche il paese leader tra le economie occidentali, gli Stati Uniti, come abbiamo visto presenta una fortissima crescita demografica. L’Italia, nota dolens, dal 2014 al 2022 ha invece già perso quasi 2 milioni di abitanti: -3%.
    In sintesi, dunque, un’area economica che si contrae sia sul fronte dei produttori, sia su quello dei consumatori, è destinata a perdere di peso e ad occupare uno spazio residuale: quello “concesso” dalle economie trainanti, diventando, nella migliore delle ipotesi, a queste complementare. Ma l’economia rappresenta la scocca su cui si modella la carrozzeria. E così, fuor di metafora, le società industriali occidentali, che un secolo fa ospitavano circa un quarto della popolazione mondiale (500 milioni su circa 2 miliardi) ed oggi poco più del 10%, rischiano di implodere e di veder marcire i frutti migliori dei decenni del welfare, compromettendo la tenuta stessa dei sistemi democratici. Ciò in Italia risulta particolarmente evidente nello sfilacciamento progressivo della tenuta sociale.

    Reinventare un Paese ed il suo futuro
    Rispetto alla fosca prospettiva che “vedrebbe” la popolazione del nostro Paese diminuire ulteriormente di circa 15 milioni di unità intorno al 2080, va sottolineato l’uso del condizionale. Ciò infatti non è ineluttabile, ed avverrà solo se non ci saranno politiche attive per contrastarla o quantomeno attenuarla. Ma cosa dovrà necessariamente intervenire per impedire questo tracollo demografico? Quali strumenti dovranno essere utilizzati? Le “due gambe” per avanzare su questo doveroso, ineludibile, percorso sono i provvedimenti per la famiglia e una seria programmazione dell’immigrazione e dell’accoglienza di nuovi cittadine e cittadini. Vediamoli nello specifico.
    1) L’obiettivo di riportare nei prossimi 3-4 decenni il tasso medio di riproduzione dall’attuale 1,20 a 2,1 (o quanto meno ad avvicinarlo), ovvero alla quota che garantirebbe una ripresa ed una tendenziale stabilità demografica, è totalmente illusorio. Adeguate e auspicabili politiche nazionali possono attenuare la curva negativa, ma i provvedimenti e le linee di intervento di cui sempre più si parla – e che hanno piena dignità politica, sempre che non vengano appesantiti da orpelli e forzature ideologiche e/o in logica “identitaria” – , non saranno comunque in grado di garantire una importante crescita delle nascite né, tantomeno, di compensare l’invecchiamento della popolazione. Oltretutto le politiche a favore della famiglia e della natalità hanno un costo elevatissimo che il nostro Paese non sostiene e, probabilmente anche in futuro non potrà sostenere. In Italia queste politiche si incentrano sostanzialmente nell’assegno unico, che vi destina circa 17 miliardi annui dal bilancio dello Stato, in poche emal spese risorse per i servizi alla famiglia, che dovrebbero permettere di conciliare gli impegni familiari con la dimensione lavorativa, e infine in provvedimenti spot come il varo partire dal 2025 del contributo di 1.000 euro una tantum per i nuovi nati da genitori al di sotto di un determinato livello di reddito. Per fare un confronto impietoso, la Francia si può permettere di erogare in termini di aiuti diretti e benefici fiscali circa il 2% del suo Pil, ovvero più di 60 miliardi di euro annui. In questo ambito, poi, non si deve compiere l’errore di imporre alla popolazione femminile un compito inattuabile e per di più venato da sfumature autoritarie e patriarcali. Un conto è varare politiche che rendano più possibile e appetibile l’opzione riproduttiva, altro è riproporre una logica che rinserra le donne nell’ormai superata
    concezione del focolare domestico e che ne esalta principalmente il ruolo di mogli e madri, colpevolizzandole se non vi si adeguano pienamente. Sì, dunque, alle politiche sulla famiglia e a seri incentivi alla natalità, ma nella piena consapevolezza che i tassi di riproduttività nei prossimi decenni potranno aumentare al massimo di un 10/20%, e che ciò quindi non allenterà significativamente la morsa che conduce al declino demografico.
    2) La seconda “gamba” non può che essere quella della programmazione e dell’accoglienza nei nostri territori di quote di migranti tanto ampie, quanto adeguatamente programmate e integrate. Non è questa la sede in cui illustrare ciò che l’Eurispes pensa dell’attuale dibattito, in Italia e in Europa, sul tema dell’immigrazione. Certamente sarebbe necessario lasciare da parte le lenti della cronaca ma anche quelle dell’ideologia, per inforcare gli occhiali che servono a leggere i processi storici, che proprio in quanto tali avanzano secondo trend difficilmente modificabili. Tutti i paesi europei vedranno giungere, infatti, a ritmi superiori a quelli odierni molti nuovi cittadini dalle aree del mondo demograficamente più attive. E questo non rappresenta un problema, ma una soluzione. Ovviamente si dovrà necessariamente passare dall’ “emergenza” immigrazione”, al varo di adeguate politiche di accoglienza e di integrazione. Tutto ciò, che piaccia o no, avverrà, e in parte sta già avvenendo. I paesi più accorti hanno già imboccato questa via, magari senza proclami per non attizzare o per limitare le resistenze interne. E’ il caso della Germania, che negli anni 2014-2022, quelli che, come abbiamo visto, hanno segnato per l’Italia un calo di quasi 2 milioni di residenti, ha aumentato la sua popolazione di più di 3 milioni di abitanti, e chiaramente non in virtù di un’impennata del tasso di riproduzione delle donne tedesche, che di fatto è poco più alto di quello italiano (1,35); a pesare sono stati il milione abbondante di siriani accolti nell’era Merkel, e il milione e trecentomila ucraini (soprattutto giovani donne) generosamente accolti a partire dal febbraio 2022, dopo l’invasione del paese da parte della Russia. Questi processi non sono, certo, indolori. Anche la Germania li sta pagando con la crescita delle forze di estrema destra nei lander dell’est per le frizioni che gli ampi flussi di immigrazione stanno
    generando, e che molto spesso vengono utilizzati per parlare “alla pancia” di fasce di
    elettorato più fragili.

    Conclusioni
    In queste pagine non abbiamo dato spazio ai toni, agli slogan e ai contenuti del dibattito politico che popola la comunicazione pubblica sui due temi su cui ci siamo pur brevemente diffusi: principalmente la denatalità, e di riflesso i flussi immigratori. E’ stata questa una scelta consapevole per rimarcare la distanza che esiste tra le proiezioni demografiche del Paese, compreso quelle dell’impatto e del contributo dell’immigrazione, e le polemiche che quotidianamente popolano lo scontro politico, ad esempio, quella sulla cosiddetta “invasione” del Paese operata dai profughi provenienti dal mare o dalle rotte orientali, ma anche quelle sugli strumenti per stimolare la natalità.
    Andando con ordine, sul fenomeno della denatalità il livello della comunicazione mainstream è assai scarso e approssimativo; i dati Istat non vengono illustrati e approfonditi, e ci si concentra sulle contrapposizioni tra chi magnifica i bonus per le neo mamme, e chi segnala la penuria di servizi per la famiglia. Tutto qui. Sembra manchi la consapevolezza dell’abisso in cui sta precipitando la tenuta demografica del Paese. Sull’immigrazione nel pubblico dibattito non si propongono proiezioni a medio/lungo termine o analisi approfondite sull’esigenza di moderare il declino demografico o di andare incontro alle esigenze del sistema imprenditoriale. Ci si contrappone tra “buonisti” e “cattivisti”, tra chi cavalca la cosiddetta “sostituzione etnica” e chi si concentra solo sul doveroso ed encomiabile ruolo dell’accoglienza, tra chi criminalizza la categoria dei profughi ma fa poco per stigmatizzare le attività criminali degli italiani che sfruttano i “clandestini” nelle campagne e nelle fabbrichette del nord, e chi è per le frontiere e i porti aperti senza se e senza ma.
    Bene, anzi male. I problemi che abbiamo affrontato non si risolvono con gli slogan, la superficialità e le baruffe chiozzotte che animano i talk televisivi, il web ma purtroppo anche le prime pagine di molti quotidiani a stampa. Sarebbe essenziale che i decisori politici si mettessero inascolto degli scienziati sociali, dei demografi, degli esperti di econometria. A proposito di questi ultimi, sarebbe utile che la politica li intervistasse per conoscere se esiste, ad, esempio, un modello di tenuta economica e democratica per un’Italia del 2080 popolata da soli 46 milioni di abitanti, in grande maggioranza anziani e quindi inattivi. La risposta è scontata e, quindi, sarebbe necessario “aprirsi” e non chiudersi al futuro.

    In conclusione, e in controtendenza rispetto al livello di conflittualità che domina il dibattito, segnaliamo l’importante intervento del Governatore della Banca d’Italia dello scorso 21 agosto: “Il calo demografico in Ue rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e sulla sostenibilità dei debiti pubblici: per contrastarlo è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne, ma anche le misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura”.
    Mantenendo da parte le “valutazioni di altra natura” cui sibillinamente ha fatto riferimento il Governatore, più recentemente (ottobre 2024) il Centro Studi della Confindustria è intervenuto sul binomio denatalità-immigrazione. Dall’associazione degli imprenditori non ci si può certo attendere uno studio a 360 gradi sulle prospettive demografiche del Paese, ma solo un importante contributo sul tema del mercato del lavoro e sulle sue prospettive ed esigenze più immediate.
    Inoltre, la Confindustria non è certo una ONG, e quindi non è accusabile di esporre visioni di natura ideale o ideologica. Bene, di fronte alle difficoltà che il mondo produttivo da anni incontra nel reperimento di adeguate disponibilità di manodopera in quasi tutti i comparti, il sindacato degli imprenditori segnala che l’attuale afflusso programmato di lavoratori dall’estero risulta insufficiente. Le quote del decreto flussi stabilite dal Governo per il triennio 2023-2025 (151.000 arrivi l’anno) non bastano a rendere meno problematica la ricerca di quelle braccia e di quelle teste che le dinamiche della domanda e dell’offerta di lavoro richiederebbero. Ce ne vorrebbero 120.000 in più. Per l’associazione di Via dell’Astronomia, dunque, già oggi sarebbe necessario “importare” circa 270.000 lavoratori l’anno. Su un piatto della bilancia abbiamo dunque i fabbisogni del sistema produttivo, sull’altro le polemiche intorno ad alcune decine di migliaia di “clandestini” che arrivano in Italia con i barconi o dalle rotte orientali. Lo squilibrio tra lo spazio occupato dalle contrapposizioni politiche e ideologiche e quello da destinare su di un piano di realtà alla soluzione di problemi epocali quali la denatalità, risulta evidente. Ed il Paese avrebbe bisogno proprio di disfarsi delle scorie dell’inconsapevolezza e fare un bagno di realtà.

    ARTICOLO 32, agenzia di stampa iscritta in data 5 novembre 2025 al n. 116/2025 del Registro Stampa del Tribunale di Roma

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