Di Luca Baldazzi – “E’ solo un mal di testa….”. Fortunato chi può fare una simile affermazione, perché, in effetti, la cefalea nella maggior parte dei casi è un disturbo passeggero, sgradevole ma gestibile. Non è così, invece, per chi soffre di emicrania cronica, ovvero per più di 14 giornate al mese. Allora si tratta di un vero e proprio calvario, che colpisce quasi 3 volte più le donne rispetto agli uomini, e che impatta pesantemente sulla qualità della vita e sul benessere mentale di chi ne è afflitto, generando ansia e depressione. La gravità di questa patologia è già da tempo nota, tanto da venire riconosciuta nel 2020 – primo paese in Europa – dalla legislazione italiana come condizione invalidante, con un marcato impatto anche sulla produttività: 4,6 miliardi di euro l’anno, secondo stime Bocconi del 2022.
Ci sono però buone notizie, che giungono dal 19° European Headache Congress, tenutosi dal 3 al 6 dicembre a Lisbona nel corso del quale è stato presentato uno studio internazionale Pearl (Pan-European Real Life), che evidenzia l’efficacia dei trattamenti con alla base l’anticorpo monoclonale anti-Cgrp fremanezumab. Lo studio, durato 24 mesi e che ha coinvolto 1140 individui, con dati definiti per 500 soggetti in un periodo di 6 mesi, mostra come il 75% dei pazienti che assumevano il farmaco fremanezumab hanno registrato in media una riduzione dei giorni di emicrania cronica da 15 a 7, con sensibili miglioramenti rispetto al grado di disabilità associato a queste patologie. I pazienti italiani interessati dallo studio sono stati 304, selezionati tra chi patisce emicrania cronica o episodica ad alta frequenza. Si tratta di una condizione che riguarda il 2% della popolazione complessiva.
La sintomatologia è variabile: nausea, vomito, fastidio per la luce e per il rumore. L’impatto dei farmaci per le fasi più acute è solo in parte efficace, e i pazienti non possono fare altro che allettarsi ed eliminare le fonti di luce: una condizione di vera e propria temporanea disabilità. I risultati di questo farmaco sposano l’approccio avanzato dagli esperti di queste patologie: prevenzione al posto della più classica automedicazione a posteriori dei disturbi, che non permette di ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi. Come osserva anche Cristina Tassorelli, professoressa di Neurologia all’Università di Pavia, “In questi anni abbiamo avuto farmaci nuovi per la terapia di prevenzione, che riducono la frequenza e l’intensità degli attacchi, e altri per il trattamento sintomatico al bisogno”.
Una speranza, dunque, per migliorare la qualità della vita di centinaia di migliaia di cittadini che vivono nell’attesa di un nuovo avvicinato attacco, e che anche in quelli che Lucrezio avrebbe definito “intervalla insaniae” , patiscono per postumi delle precedente crisi.

