Di Alberto Baldazzi – La percezione che il Servizio Sanitario Nazionale navighi in cattive acque e che rischi di inabissarsi, è molto diffusa. Il cittadino-medio lo riscontra quando ha necessità di una visita specialistica o di una diagnostica per immagini e si ritrova “in coda” a liste d’attesa improponibili; oppure quando, in alcune aree del Paese, ha difficoltà a trovare il medico di base, perché questo essenziale livello della salute pubblica patisce una carenza di turnover; e, ancora, quando deve far ricorso ad un Pronto soccorso, e tocca con mano lo stato comatoso che caratterizza l’area della medicina d’urgenza; infine, quando necessita di supporto domiciliare per se stesso, o per un congiunto fragile, anziano e allettato, e deve far conto solo su se stesso. Questa “percezione”, che soprattutto in alcune regioni in buona parte coincide con la “realtà” oggettiva della carente offerta sanitaria e socio-sanitaria, ha giustamente scalato le prime pagine dei quotidiani, le presenze nei salotti degli immancabili talk-show e gli algoritmi “pelosi” del web. Anche quando il cittadino non ne è direttamente toccato, è portato a confrontarsi con la crisi del sistema dai dati drammatici dei quasi 6 milioni di italiani che non accedono più alle cure, e dal clamore di un divisivo dibattito politico.

    Prima di essere guidati dai report e dagli interventi della Fondazione Gimbe che illustrano, dati alla mano, la progressiva involuzione del nostro servizio sanitario, è opportuno chiarire alcuni punti:

    1. la sanità italiana degli ultimi decenni del secolo scorso ha rappresentato una assoluta eccellenza anche nel confronto con i più avanzati paesi occidentali; ancora oggi, malgrado le tante evidenze di crisi, assicura più che dignitosamente il bene salute alla maggioranza dei cittadini, e non è scontato che non si possa ovviare al suo deperimento;
    2. l’eziologia della sua crisi identifica nel definanziamento progressivo l’elemento base, cui si aggiungono la crescita delle domanda dovuta all’invecchiamento della popolazione, gli effetti di una regionalizzazione che a partire dalla riforma costituzionale del Titolo V non ha dato una buona prova di sé, la voracità degli appetiti imprenditoriali e finanziari che stanno approfittando dei varchi aperti per collocare iniziative e modalità operative guidate dalla logica del profitto

    Ma lasciando sullo sfondo le cause che oramai da un quarto di secolo sempre più stanno allontanando la Sanità pubblica dallo spirito e dalla lettera che la ha originariamente informata, è utile che la “percezione” del cittadino di cui abbiamo parlato sia supportata da dati concreti. Ciò permette quella crescita di consapevolezza critica che può rappresentare una base condivisa utile per orientare anche la politica verso scelte e provvedimenti in grado di rimetterci in rotta e riconquistare accettabili livelli di risposta alla richiesta di Salute. In questo senso la capacità della Fondazione Gimbe di “dare voce” ai numeri, fornendone una interpretazione allo stesso tempo ineccepibile e comprensibile, da anni rappresenta un patrimonio inestimabile. Quella che segue è una sintesi di un recente intervento del suo Presidente, il Dottor Nino Cartabellotta, al 20° Forum Risk Management di Arezzo, incentrato sul processo di progressiva “privatizzazione” del bene Salute nel nostro Paese. Speriamo di riuscire a fornire attraverso questa sintesi al nostro lettore elementi di giudizio maggiormente fondati sulla realtà.

    Nino Cartabellotta ha organizzato il suo intervento analizzando le diverse aree che presentano progressivi elementi di privatizzazione e, precisamente

    • privatizzazione della spesa
    • privatizzazione della produzione, che riguarda
    • 1- privato convenzionato
    • 2- privato non convenzionato
    • 3- altri attori privati

    Quanto alla privatizzazione della spesa, nel 2024 la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket, ovvero di tasca propria) è ammontata a € 41,3 miliardi, ovvero il 22,3% della spesa sanitaria totale. Questa percentuale da 12 anni supera costantemente il limite del 15% raccomandato dall’OMS, “soglia oltre la quale sono a rischio uguaglianza e accessibilità alle cure”. Cartabellotta ha aggiunto: “Con quasi un euro su quattro di spesa sanitaria sborsato dalle famiglie oggi siamo sostanzialmente di fronte a un servizio sanitario “misto”, senza che nessun Governo lo abbia mai esplicitamente previsto o tantomeno dichiarato. Peraltro, la spesa out-of pocket non è più un indicatore affidabile delle mancate tutele pubbliche, perché viene sempre più arginata dall’impoverimento delle famiglie: le rinunce alle prestazioni sanitarie sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024. In altre parole, la spesa privata non può crescere più di tanto perché nel 2024 secondo l’ISTAT 5,7 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà assoluta e 8,7 milioni sotto la soglia di povertà relativa.”

    Nel 2023 i 43 miliardi di spesa sanitaria privata venivano così suddivisi: 12,1 miliardi alle farmacie, 10,6 miliardi a professionisti sanitari (di cui 5,8 miliardi odontoiatri e 2,6 miliardi ai medici), 7,6 miliardi alle strutture private accreditate e 7,2 miliardi al privato “puro”, ovvero alle strutture non accreditate, e 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per libera professione e altro. Per Cartabellotta, “Questi numeri fotografano con chiarezza che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, acquistando direttamente sul mercato le prestazioni necessarie”.

    Passando alla privatizzazione della produzione, essa riguarda le diverse categorie di erogatori di servizi e prestazioni, ed in primo luogo il privato convenzionato, le cui strutture nel 2023 rappresentavano il 58% del totale, contro il 42% di quelle pubbliche: in valore assoluto, 17.042 contro 12,344. Tra il 2011 e il 2023 il numero di strutture ospedaliere e di assistenza specialistica ambulatoriale è diminuito sia nel pubblico sia nel privato accreditato, ma la contrazione è stata circa doppia nel pubblico (-14,1% e -5,6%) rispetto al privato (-7,6% e -2,5%). Il quadro si ribalta nelle altre aree. Nell’assistenza residenziale il pubblico arretra del 19,1% mentre il privato accreditato cresce del 41,3%; nell’assistenza semi-residenziale il pubblico segna -11,7% a fronte di un aumento del 35,8% del privato. Nell’assistenza riabilitativa crescono entrambi, ma con percentuali molto diverse (+5,3% pubblico vs +26,4% privato. In proposito questo è il commento di Cartabellotta: “In altri termini nell’assistenza ospedaliera e specialistica ambulatoriale nel periodo 2011-2023 le strutture private accreditate si sono ridotte meno di quelle pubbliche e nelle altre tipologie assistenziali sono aumentate molto di più. Di conseguenza, oggi il privato accreditato finisce per essere la spina dorsale di interi settori”. In valore finanziario, comunque, a questa espansione del privato non corrisponde una aumento percentuale sulla spesa complessiva, il che significa che anche il privato ha risentito del complessivo definanziamento che ha determinato l’abbassamento di quanto riconosciuto alle strutture convenzionate e accreditate per determinate prestazioni erogate. Nella sofferenza generale del sistema, patisce anche il privato, dunque.

    Vediamo ora l’evoluzione che sta interessando il privato non convenzionato, ovvero le strutture sanitarie che erogano prestazioni esclusivamente in regime privato, senza alcun rimborso a carico della spesa pubblica. Negli ultimi anni questo settore ha registrato la crescita più marcata: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso le strutture non convenzionate è aumentata del 137%, passando da 3,05 miliardi a 7,23 miliardi, con un incremento medio di circa € 600 milioni l’anno. Questo il commento di Cartabellotta: “Tra i fenomeni di privatizzazione la dinamica più preoccupante è dunque la velocità di crescita del privato “puro”. Infatti, mentre il dibattito pubblico continua ad avvitarsi sul ruolo del privato convenzionato, la cui incidenza sulla spesa sanitaria si è addirittura ridotta, i dati documentano la crescita esponenziale della spesa out-of-pocket verso il privato “puro”. Non trovando risposte tempestive nel pubblico né nel privato accreditato, chi può pagare cerca altrove ed esce definitivamente dal perimetro delle tutele pubbliche”

    Esistono poi gli altri attori privati, suddivisi tra terzi paganti e investitori. Tra i primi vanno enumerati i fondi sanitari, le casse mutue, le compagnie assicurative, le imprese, gli enti del terzo settore e altre realtà non profit. Nel 2024 la spesa sostenuta da questi soggetti ha raggiunto € 6,36 miliardi, con un incremento di oltre € 2 miliardi nel triennio post-pandemia. Ma oltre l’impatto diretto di questi volumi “esterni” al Servizio Sanitario Nazionale, andrebbe valutato quello fiscale, come segnala Cartabellotta: “Va ribadito che ai fondi sanitari integrativi e al welfare aziendale viene riconosciuta una defiscalizzazione il cui impatto sulla finanza pubblica non è mai stato reso pubblico, né è calcolabile. Ma che rappresenta, indirettamente, uno strumento di privatizzazione occulta, visto che dirotta risorse pubbliche prevalentemente verso soggetti privati“.

    Per quanto riguarda gli investitori, sono sempre più i fondi di investimento, le assicurazioni,i gruppi bancari e le società che considerano la sanità un settore ad alta redditività. Questi soggetti privati investono risorse nell’ambito dei propri piani aziendali come capitale di rischio, sia acquisendo quote societarie, sia stipulando partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. Il commento di Cartabellotta:“Se l’ingresso di capitali privati in sanità non può essere criminalizzato, senza regole chiare e una governance rigorosa aumenta il rischio di sbilanciamento tra l’obiettivo pubblico della tutela della salute e quello imprenditoriale della legittima generazione di profitti”.

    Crediamo che seguendo, come abbiamo fatto in questo articolo, i dati incontrovertibili e i commenti della Fondazione Gimbe, il cittadino possa acquisire una informazione diretta e documentata che giustifica il giudizio secondo cui la Salute/Bene comune rischia di rimanere uno sbiadito ricordo di un pur recente passato. Questa è una prospettiva drammatica, perché impatta sulla tenuta complessiva del tessuto sociale e porta indietro l’orologio della storia del welfare nel nostro Paese, come denuncia un allarmato Cartabellotta:

    “In questo scenario caratterizzato dal progressivo arretramento della sanità pubblica e al contempo da una sregolata espansione di innumerevoli soggetti privati che perseguono anche obiettivi di profitto, parlare di “integrazione pubblico-privato” diventa anacronistico e oltraggioso nei confronti dell’art. 32 della Costituzione e dei princìpi fondanti del SSN. Se per il nostro Paese salvaguardare un SSN pubblico, equo e universalistico non è più una priorità, la politica abbia il coraggio di dirlo apertamente ai cittadini e gestisca con rigore i processi di privatizzazione, invece di lasciarli correre a briglia sciolta. In alternativa, si assuma pubblicamente la responsabilità di una “manutenzione ordinaria” di un modello che produce disuguaglianze, impoverisce le famiglie, penalizza il Sud e abbandona anziani e fragili. Perché è sotto gli occhi di tutti che la privatizzazione del SSN, non programmata e non annunciata e proporzionale all’indebolimento del SSN, sta trasformando i diritti in privilegi”.

    Per chi ritiene la Salute un diritto, è importante conoscere lo stato dell’arte e i trend in atto. Da questi si deve partire nel tentativo, forse disperato ma doveroso, di invertire la rotta. Di questo tentativo e degli strumenti che lo possono supportare, parleremo in un prossimo articolo.

    ARTICOLO 32, agenzia di stampa iscritta in data 5 novembre 2025 al n. 116/2025 del Registro Stampa del Tribunale di Roma

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