di Luca Baldazzi – Nell’audizione parlamentare del 6 novembre sui contenuti della Legge di Stabilità 2026, gran risalto hanno avuto le parole del Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica Francesco Maria Chelli sui temi della sanità. Parlando davanti alla commissione Bilancio, il Presidente dell’Istat si è diffuso su vari temi: il finanziamento pubblico e privato, i “numeri” e le caratteristiche anagrafiche dei professionisti impiegati, nonché le difficoltà e le cause della rinuncia a curarsi per milioni di concittadini. Tra i vari fronti toccati, il presente articolo mira a delineare gli aspetti assai problematici relativi al mancato ricambio del personale.

    Francesco Maria Chelli, Presidente Istat

    Com’è risaputo, la composizione del personale sanitario operante nel nostro Paese è molto squilibrata, ma ascoltare gli aggiornamenti statistici al 2024 non può che acuire una già diffusa apprensione dinnanzi alle complesse manovre che sarebbero richieste per risolvere questo fronte. 

    Se il tema del sotto finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale è, ipoteticamente, affrontabile a livello di decisioni politiche (è il caso della repentina decisione di incrementare gli investimenti in Difesa), intervenire sulla condizione delle figure professionali e sulle loro carenze non si esaurisce in una subitanea allocazione di risorse, ma chiama in campo la creazione un capitale umano che non si “inventa” con un tratto di penna perchè necessita di lunghi anni di programmazione e formazione.

    Mentre la domanda di “salute” aumenta a causa dell’invecchiamento della popolazione, il “capitale umano” che è essenziale per rispondervi appare sempre più carente e inadeguato. L’Istat segnala problemi di natura sia strutturale, sia generazionale. Sul primo aspetto salta agli occhi il particolare rapporto che esiste in Italia tra i medici e le altre professioni sanitarie: numerosi i primi, drammaticamente scarse le seconde. Vediamo i numeri riportati in audizione dall’Istat:

    “Il sistema sanitario pubblico e privato nel 2023 conta su circa 320mila medici “praticanti”, ossia 5,3 per mille abitanti, valore superiore alla media dell’Unione europea (4,1). I medici specialisti sono circa 260mila31 (81,2%), mentre i medici di medicina generale (MMG) sono meno di 40mila, il 12% a fronte del 23% della media dei paesi Ocse“.

    Molti medici, dunque, anche se con forti carenze come quella che afferisce ai medici di medicina generale o a comparti quali la medicina d’urgenza (i pronto soccorso). Ma passando agli altri professionisti della salute, la situazione è diametralmente diversa:

    “Nel 2023 sono circa 405mila gli infermieri “praticanti” in Italia, 6,9 per mille abitanti contro una media Ue a 27 pari a 8,3 e una media dei paesi Ocse pari a 9,1. Il rapporto infermieri/medici è di 1,3 contro 2,5 della media Ocse”.

    Il “numero” dei medici risulta dunque elevato, mentre quello degli infermieri è assolutamente sottodimensionato. Questa situazione si è consolidata nei decenni, e risente di una impostazione medico-centrica che poteva avere senso in una sanità poco assistita da tecniche diagnostiche avanzate, ma che oggi risulta totalmente antiquata. Le figure degli infermieri sono, tra l’altro, sempre più professionalizzate: laurea obbligatoria, specializzazione intrapresa dalla maggioranza dei giovani infermieri; eppure, nella gestione dei pazienti e delle terapie gli attuali protocolli vedono ancora il medico come il deus ex machina del sistema, senza valorizzare il ruolo di supporto che in relativa autonomia gli altri professionisti della salute potrebbero svolgere; che ciò sia possibile (e auspicabile) è dimostrato dal diverso rapporto medici-infermieri che si manifesta nei maggiori paesi Ocse. Insomma, soprattutto nelle strutture ospedaliere “molti generali e poche truppe”. Truppe, per altro, poco pagate (anche i “generali”, i medici pubblici lo sono) e sottoposte a carichi di lavoro difficilmente sopportabili proprio perché sotto organico.

    A questa distorsione di natura strutturale si somma l’aspetto anagrafico. Il nostro personale sanitario è mediamente assai anziano e spesso vicino alla quiescenza:

    “Nel 2023 si registra la quota più alta tra i Paesi dell’Ue a 27 di medici anziani in servizio: il 44,2% ha più di 55 anni e il 20,6% supera i 65 anni; per quest’ultima fascia di età, valori decisamente più bassi si osservano in Francia (16,1%), Germania (9,4%) e Spagna (8,4%) .

    Anche per il personale infermieristico si pone, seppure in altri termini, la questione dei capelli imbiancati :

    Anche se la struttura per età è più giovane di quella dei medici, il progressivo invecchiamento merita particolare attenzione: allo stato attuale 1 infermiere su 3 ha 45-54 anni e 1 su 4 ha almeno 55 anni

    Se la cornice generale è alquanto precaria, nel settore dei medici di medicina generale “piove sul bagnato”:

    Il mancato ricambio generazionale caratterizza in particolare questa categoria: attualmente i MMG sono 37.983, 0,64 per mille residenti. Il 60% ha almeno 60 anni, evidenziando la struttura per età più anziana tra le diverse categorie di medici. In un contesto in cui la dotazione di MMG è decrescente (-7.220 medici in dieci anni), desta particolare preoccupazione l’uscita dal mercato del lavoro di molti professionisti e il conseguente ulteriore incremento del carico di assistenza per chi continua a svolgere questa attività professionale: la percentuale di MMG con più di 1.500 assistiti (valore massimo stabilito dalla normativa) è pari al 51,7%, in aumento di 4 punti percentuali rispetto al 2022″.

    La carenza dei così detti medici di base rappresenta una vera e propria ghigliottina per il sistema, tanto più in una fase in cui “teoricamente” queste figure dovrebbero assumere ulteriori ruoli nelle case e negli ospedali si comunità, centrali negli obiettivi della Missione 6 del PNRR per potenziare la medicina territoriale.

    In questa nostra riflessione sulla scorta degli ultimi dati forniti da Istat (che coincidono con quelli presentati ad inizio ottobre dalla Fondazione Gimbe) non c’è spazio per affrontare il tema degli stipendi bassi, della fuga da alcune specializzazioni se non proprio dal Paese di giovani medici e giovani infermieri, di molte scuole di specializzazione disertate di candidati, e neanche per consultare “soluzioni di fantasia” quali quella di formare nuovi infermieri andandoli a cercare nei paesi asiatici (come nel caso della Lombardia che che ha stipulato un accordo di formazione di figure infermieristiche con l’Uzbekistan), oppure di qualche decina di medici “importati” da Cuba.

    In conclusione è necessario ribadire che oltre al tema del finanziamento (per il quale bisogna battersi e/o attendere tempi migliori) è essenziale da subito avanzare politiche di programmazione che partano dalle università per evitare che nei prossimi anni e decenni il rapporto già deficitario pazienti/personale sanitario si orienti su di una china che sarà impossibile risalire.

     

     

    ARTICOLO 32, agenzia di stampa iscritta in data 5 novembre 2025 al n. 116/2025 del Registro Stampa del Tribunale di Roma

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