Di Alberto Baldazzi

    D.- Dottor Cattabellotta, i numeri che la Fondazione Gimbe analizza e commenta segnalano che la privatizzazione della sanità nel nostro Paese è oramai un fenomeno sempre più evidente. Articolo 32 li ha recentemente ripresi, e in proposito una domanda: anche se si tratta solo di una goccia nel mare, come va giudicato l’ampliamento del perimetro dell’attività e dell’intervento delle farmacie contenuto nella recentissima legge sulle semplificazioni? A che cosa serviranno questi nuovi “negozi della salute”?

     C.- In generale la Farmacia dei Servizi, per come era stata immaginata, non è una cattiva cosa, perché il fatto di mettere a disposizione dei cittadini ulteriori prestazioni, soprattutto in un’ottica di prossimità, in particolare nelle aree a bassa densità abitativa, dove spesso la farmacia è l’unico presidio, è cosa buona e giusta. Quello che a me lascia molto perplesso è il fatto di pagare con denaro pubblico strutture private senza passare dal regime dell’accreditamento, che è una norma che sostanzialmente fa sì che qualunque tipo di struttura privata che debba essere rimborsata con soldi pubblici, debba seguire delle regole chiare. La domanda che io mi pongo è quale sia la dotazione strutturale, tecnologica, organizzativa e anche professionale nelle farmacie che oggi sono chiamate ad erogare prestazioni di tipo diagnostico. Il rischio è che tanti esami falsamente positivi finiscano con lo scaricarsi sul Servizio Sanitario Nazionale, sovraccaricandolo. Questo è il  ragionamento che va fatto, perché da un lato noi abbiamo un aumento di possibilità per il cittadino di ricevere delle prestazioni sanitarie, ma dall’altro queste prestazioni vengono erogate in un contesto dove l’interpretazione dei risultati potrebbe non essere idonea e, quindi,  a fronte di un risultato anomalo sarà detto al cittadino di andare al pronto soccorso, ad esempio perché c’è un’onda anomala nell’ECG.

    D.- Evidentemente si tratta oramai di veri e propri “negozi della salute” con la possibilità anche che le farmacie creino apposite dipendenze. Avremo le nostre città strapiene di queste  nuove  realtà. E va ricordato che,  come ha scritto Gimbe recentemente, al di fuori del perimetro della sanità pubblica le 20.000 farmacie in Italia già nel 2023 fatturavano più di 12 miliardi. Un ampliamento che, quindi, è riservato a chi può spendere.

    C.- In generale quello che sta aumentando negli ultimi anni nella spesa a carico dei cittadini è la quota per il privato puro, un privato che non è convenzionato col Servizio Sanitario Nazionale, che non è rimborsato col denaro pubblico e dove il cittadino trova delle risposte in conseguenza del fatto che il Servizio Sanitario Nazionale ha meno capacità di erogazione di servizi; inevitabilmente la domanda, non necessariamente il reale bisogno, è aumentata.

    Questo è il fenomeno che viene chiamato spesso delle smart clinic, che hanno un elevato livello di digitalizzazione e danno la possibilità di prenotare, anzi acquistare, una prestazione sanitaria come se fosse un prodotto di consumo; un fenomeno che  si sta diffondendo in particolare nelle grandi regioni del nord, ma anche al sud. Il dato più interessante è che se nel 2016 la quota della spesa out-of-pocket versata dai cittadini a queste strutture è stata intorno a 3 miliardi, rispetto ai circa 5 del privato accreditato, ma nel 2024 praticamente i cittadini hanno speso tanto per il privato non accreditato e il privato puro, quanto per il privato accreditato. Quindi questo fa capire che noi stiamo costruendo o, meglio, si sta costruendo,  si sta affermando silenziosamente un secondo binario che è destinato solo a chi può pagare direttamente, oppure a chi ha le prestazioni rimborsate da una polizza assicurativa.  Ciò ovviamente fa uscire queste prestazioni completamente dal perimetro delle tutele pubbliche, perché di fatto sia il finanziatore – che sia una banca, un’assicurazione, un fondo di investimento – , sia l’erogatore sono completamente privati e rappresentano una fetta di mercato libero a cui ovviamente può accedere, quando ne ha bisogno, solo chi può pagare.

    D.- Il processo di privatizzazione ha diversi padri. In primo luogo il definanziamento del servizio sanitario nazionale e poi anche la difficoltà di rispondere alle maggiori richieste di salute di una popolazione che invecchia. Siccome però in natura il vuoto non esiste, il mercato ha visto nella crisi del pubblico un’occasione di business.  Ma in questo contesto, quale è e quale dovrebbe essere il ruolo della politica? Accompagnare semplicemente questi processi, addirittura supportarli o in qualche misura contrastarli?

    C.- Io credo che la politica, se esiste ancora quella con la P maiuscola, deve innanzitutto avere una visione, decidere e dire esplicitamente che cosa vuole fare del Servizio Sanitario Nazionale,  perché la  logica della manutenzione ordinaria, indipendentemente da quante risorse vengono aggiunte, cui corrisponde la sostanziale assenza di riforme che oggi sarebbero più che mai necessarie, sta facendo scivolare il Servizio Sanitario Nazionale verso risposte private.  Nessun governo ha detto “stiamo privatizzando”, stiamo smantellando il Servizio Sanitario Nazionale, ma è evidente che dove il pubblico arretra il privato avanza, perché da un lato c’è necessità di rispondere alle esigenze dei cittadini, e dall’altro il privato che – sotto tutte le sue forme, non è solo il privato accreditato ma i tanti soggetti che ruotano in quello che noi abbiamo chiamato un “ecosistema dei soggetti privati in sanità” -, vede opportunità di espansione. Non dimentichiamo che negli ultimi anni vari soggetti privati, quindi vari fondi di investimento,  banche, assicurazioni, stanno investendo grandi capitali in sanità, e non lo stanno facendo sicuramente per beneficenza, perché ovviamente vedono potenziali ritorni in termini di utili. In tutto questo processo che cos’è importante dal punto di vista della governance? Capire quanto l’espansione del privato ha come obiettivo primario la tutela della salute, o quanto vi sia uno sbilancio verso la produzione dei profitti. Allora la domanda – ovviamente provocatoria – per la politica è: se non ce la facciamo più con il Servizio Pubblico ad erogare tutte queste prestazioni incluse nei LEA,  delle due l’una, o si rifinanzia adeguatamente e si ripotenzia il Servizio pubblico,  oppure una serie di prestazioni devono uscire fuori dai livelli essenziali di assistenza.  Perché esiste una grande contraddizione – anche qui mi si permetta una sorta di metafora – :  noi andiamo al supermercato con 100 euro,  riempiamo tre carrelli, poi arriviamo alla cassa e la cassiera sostanzialmente ci chiede cosa lasciare, quali prestazioni il Servizio Pubblico non riesce ad erogare. Quindi questa consolidata  illusione della politica che immagina un servizio sanitario che può essere gestito in maniera “sobria”, cioè spendendo pochi soldi,  non è più sostenibile perché oggi il gap con i costi dei farmaci, i costi delle tecnologie, i costi dei dispositivi, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle cronicità,  fa sì che noi di fatto abbiamo un gap enorme in termini quantitativi,  tra un finanziamento pubblico molto basso e un paniere dei LEA – il citato  “carrello da spesa”, troppo ampio. Inevitabilmente, quindi,  i cittadini non accedono alle prestazioni e devono pagarle per quanto proprio, oppure quando non ce la fanno, rinunciare alle cure. Questo contraddice completamente i principi fondanti del Servizio Nazionale e, ovviamente, anche l’articolo 32 della Costituzione, perché io dico sempre che la fascia di chi oggi rinuncia alle cure per ragioni anche economiche, di fatto identifica quegli indigenti a cui la Repubblica dovrebbe garantire delle cure gratuite.

    D.- Gimbe ritiene, – e non solo Gimbe per fortuna – , che la Sanità Pubblica sia un pilastro della convivenza civile,  e che la privatizzazione della salute rappresenti dunque un sintomo e allo stesso tempo un fattore della sua disgregazione.  Ma realisticamente cosa si può contrapporre a questo trend? Qual è il punto di caduta che può essere, ripeto, realisticamente ricercato?

    C.- Io credo che il punto di caduta, inteso  come il giorno in cui finisce il Servizio Sanitario Nazionale, non può essere identificato, perché noi siamo di fronte, come spesso ho detto, non è una valanga che con il suo rumore praticamente ci fa scappare, ma al lento scioglimento di un ghiacciaio che  dura decenni, per il quale  ogni giorno un pezzo di popolazione perde diritti, e questa perdita ovviamente avviene prevalentemente a carico delle persone delle fasce socioeconomiche più fragili, a carico delle persone che vivono nel mezzogiorno, a carico degli anziani,  cioè di tutte quelle persone che  hanno minore capacità individuale di poter colmare con risorse proprie queste  le mancate tutele pubbliche. Eppure noi viviamo in un paese democratico che deve mantenere una certa coesione sociale, e che ovviamente continua ad avere scolpiti nella pietra sia l’articolo 32 della Costituzione, sia il Servizio Sanitario Nazionale. Per questo,  quando si parla di riforme io mi chiedo  sempre: ma in che direzione vogliamo andare? Perché si potrebbe serenamente dire che il Servizio Sanitario Nazionale, quello che dà tutto a tutti, non ce lo possiamo permettere più, anche perché quale è il dato di realtà? Che tutto a tutti non lo diamo.  In metà del paese non si erogano i livelli essenziali di assistenza e, nel frattempo, abbiamo talmente demotivato il personale sanitario che se ne sta andando dal Servizio Pubblico. Quindi è evidente che bisogna trovare una soluzione nel medio periodo. Non si venga a raccontare che i soldi non ci sono, perché i soldi quando si vogliono trovare la politica li trova per altre allocazioni. La verità è che la spesa sanitaria è la fetta di spesa pubblica più aggredibile, e tutti i governi nel corso degli ultimi 15 anni hanno preferito investire su sussidi individuali piuttosto che mantenere forte un Servizio Sanitario Nazionale pubblico . Probabilmente anche per logiche populistiche, nella ricerca di consenso elettorale, siamo passati dagli 80 euro di Renzi al reddito di cittadinanza,  a quota 100, al taglio del cuneo fiscale.  Ma io mi faccio sempre  la stessa domanda: tutti questi interventi –  che peraltro non hanno nemmeno restituito consenso alla politica, visto che abbiamo nel frattempo cambiato 5-6 governi -, quale vantaggio hanno rappresentato per il cittadino?   Avere 30, 40, 50, 100 euro in più in busta paga,  e poi dovere pagarsi 300, 400, 500 euro di visite specialistiche e prestazioni sanitarie, rappresenta un reale vantaggio? Comprimere  la spesa pubblica smantellando un presidio di civiltà come il Servizio Sanitario Nazionale,  per distribuire a pioggia sussidi individuali,  sicuramente non è una mossa utile né in termini sanitari, né in termini sociali, né in termini economici.

    D.- Dottor Cartabellotta, se con un colpo di bacchetta magica si materializzassero 10-15 miliardi in più per il Fondo Sanitario Nazionale, ciò basterebbe a invertire la rotta. oppure non sarebbe sufficiente?

    C. – Io credo che noi non abbiamo bisogno per il Servizio Sanitario Nazionale di una sorta, come posso dire, di vincita al super Enalotto. Tanti soldi e subito sostanzialmente potrebbero anche non servire, l’abbiamo visto anche con la difficoltà di realizzare le opere del PNRR. Quello che serve è un piano di rifinanziamento progressivo per il  prossimo  decennio,  che ogni anno deve incrementare,  ma in maniera costante e progressiva,  il Fondo Sanitario Nazionale:  4, 8, 12, 16, 20 piuttosto che 5, 10, 15, 20 miliardi,  perché quello che sta succedendo è che di fatto la sanità solo a settembre-ottobre conosce ogni anno quanti soldi il Ministero della Salute riuscirà ad avere in più per l’anno successivo dal MEF. Questo livello di incertezza ovviamente impedisce alle regioni, alle aziende  sanitarie, ai professionisti sanitari e ai giovani che devono intraprendere le professioni sanitarie, e anche all’industria di fare programmazione di medio periodo. È evidente che noi nel 2026, per una congiuntura astrale avremo quasi 7 miliardi in più rispetto all’anno precedente; ma nel 27 rispetto al 26 oggi è previsto  meno di un miliardo in più. Questo mancato incremento progressivo del finanziamento pubblico è un elemento di grande incertezza che lascia ogni anno al governo in carica la responsabilità e la capacità di trovare risorse. In realtà ci vorrebbe un accordo politico che vada oltre gli avvicendamenti di governo.  Così come negli ultimi 15 anni abbiamo praticamente ridotto anno dopo anno il finanziamento pubblico, per il futuro dovremmo invertire la rotta. Ma questa inversione, al di là dell’eccezione rappresentata dal 2026,  sostanzialmente non si vede. A cosa servono questi aumenti progressivi di budget? Prevalentemente a rimotivare il personale sanitario, perché sia per il personale medico sia,  soprattutto,  per quello infermieristico,  riscontriamo dei poteri di acquisto delle retribuzioni che sono sostanzialmente fermi al 2000-2001: dopo 25 anni è evidente che questo livello di retribuzione ha mortificato alcune professioni sanitarie,  che per questo  non vengono scelte più nemmeno dai giovani.  Mi riferisco in particolare alla professione infermieristica. Il risultato è che ora il piano straordinario di assunzione di 6.000 infermieri previsto dalla legge di bilancio,  dovrà reperire soltanto infermieri che vengono dall’estero,  perché in Italia di fatto noi non ce ne abbiamo.

    D.- Dottor Cartabellotta, il quadro che Gimbe propone è tutt’altro che consolante. Comunque la ringrazio molto per questa conversazione.

    ARTICOLO 32, agenzia di stampa iscritta in data 5 novembre 2025 al n. 116/2025 del Registro Stampa del Tribunale di Roma

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